Onorevoli Colleghi! - L'idea che il cinema italiano sia attraversato da una crisi strutturale, nella quale si alternano con intensità diversa fasi di latenza e di «eruzione», pare essere un dato condiviso dagli operatori e dagli osservatori. È questa coesistenza di lunga durata con la «crisi», la quasi assuefazione generatasi nel tempo al fenomeno, con il correlato evocare la mitica età dell'oro del «Grande cinema italiano» che rischia tuttavia di fare da schermo ad un'analisi che, seppur impietosa sullo stato di salute di questa nostra industria culturale, ci permetta di modulare proposte innovative in termini di politiche pubbliche di settore.
      Inoltre, la recentissima sentenza della Corte costituzionale n. 285 del 2005, dichiarando incostituzionali diversi articoli del decreto legislativo n. 28 del 2004, la cosiddetta «legge Urbani» e buona parte dei relativi decreti attuativi, generando il blocco dell'attività delle Commissioni, di certo merita un intervento più sistematico e profondo che non la frettolosa «riedizione» delle norme dichiarate incostituzionali con le correzioni minime necessarie per garantire la sopravvivenza di una legge che a soli due anni dalla sua entrata in vigore è già pesantemente datata e inadeguata.
      La riscrittura del titolo V della parte seconda della Costituzione, che attribuisce alle regioni una potestà legislativa concorrente anche in materia di cinema, merita invece una ben diversa attenzione ed il riconoscimento alle regioni di un ruolo sinergico ed operativo, al fianco dello Stato, nel dare al cinema e all'audiovisivo italiano una nuova competitività fatta di impresa e non di assistenzialismo.
      Di certo il nostro cinema, in modo quasi inerziale e pensando di poter fruire a tempo indeterminato di una sua simbolica rendita di posizione, si è cullato in una dimensione «autoriale», nel suo voler essere «cultura», «espressione artistica» a prescindere quasi dall'altra faccia della

 

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medaglia che fa del «film» un «prodotto culturale», certo particolare, ma pur sempre, in quanto prodotto, costretto a scontrarsi/confrontarsi con le regole del mercato, con le trasformazioni tecnologiche e con il mutare del gusto, della domanda del pubblico.
      Il caveau della Banca nazionale del lavoro, dove giacciono a centinaia i film dati a garanzia dai nostri produttori, e gli archivi del Centro Sperimentale, dove altre centinaia di film sono stati tumulati senza il naturale esito nelle sale, film senza pubblico, sono un po' metafora di questo declino che tanto ha consumato l'aura del nostro cinema, lo ha banalmente secolarizzato, così come gli ha precluso e la possibilità stessa di essere industria culturale fortemente connotata in termini di specificità, di ancoramento identitario, di identità editoriale.
      E mentre il nostro cinema consumava le sue posizioni di rendita simbolica e di mercato cullandosi nel suo voler essere espressione «artistica/artigiana», la durezza del mercato imponeva le sue ferree regole: la concentrazione distributiva, il prodotto filmico come componente in sovraccarico dell'offerta delle tv - da quelle generaliste alle pay - la crisi delle sale storiche e il passaggio alle multisale e ai multiplex, non più luoghi mitico/magici dell'evento narrativo, della grande affabulazione filmica, ma luoghi di un'industria seriale, concatenazioni di una filiera dove conto economico e poetica devono coesistere. Non sempre questo si è voluto vedere e comprendere; la logica a monte, quella legata al sostegno statale, con la vecchia legge del 1965, restava ancorata alla centralità dell'autore e della sceneggiatura; il produttore era un incidente di percorso nel processo narrativo.
      Se si pensa che dal 1985, a crisi già avanzata del settore e, fino al 2002 lo Stato ha stanziato tramite il Fondo unico dello spettacolo (FUS) ben 4.200 miliardi di vecchie lire e che a dispetto di ciò il sistema cinema, inteso come industria culturale, non è riuscito a darsi una sua compiuta configurazione, cioè a farsi impresa, con un mercato interno e con una sua adeguata proiezione internazionale, vi è motivo di sviluppare qualche riflessione ulteriore.
      La crisi di «insolvenza» del Fondo rotativo ha portato drammaticamente alla luce che il cinema italiano, con rare eccezioni, che preferiscono spesso prescindere dal contributo di Stato, non produce risorse in grado di autoalimentarsi.
      Da ciò ne deriva che il reference system introdotto dalla legge Urbani funziona - o meglio potrebbe funzionare - se c'è un mercato, e se questo mercato è articolato in un sistema di imprese di medie dimensioni, concorrenziali, eccetera; ma il dato oramai incontrovertibile è che il mercato non c'è, proprio perché la vecchia logica assistenziale non ha esortato, né sollecitato i produttori ad entrare dentro la logica del mercato, con la annessa cultura del rischio d'impresa, con la volontà di intercettare il pubblico e non di confezionare «prodotti», anzi «opere», funzionali solo o prevalentemente all'ottenimento della sovvenzione statale.
      Senza mercato, senza imprese consolidate, il reference system diventa un lusso ineffettuale, uno strumento in sé valido ma incoerente rispetto al contesto.
      Che il cinema in Italia sconti una particolare situazione critica in termini di domanda è evidenziato da una semplice comparazione con Paesi come Francia, Spagna e Gran Bretagna. In Italia si registra infatti un consumo inferiore rispetto alla media europea, pari nel 2001 a 2,4 ingressi annuali; il consumo medio pro capite in Italia è pari a 2 biglietti contro i 3 dei Paesi europei succitati.
      Superato il picco negativo del 1992, quando il numero dei biglietti venduti crollò a 83,6 milioni, il numero dei biglietti staccati si è andato stabilizzando da qualche anno sopra la quota dei 100 milioni. Nel 2002 si arriva a 111,5 milioni. Tuttavia, anche considerando questo dato, se lo si compara ai 140 milioni di biglietti venduti in Spagna nello stesso anno, ai 175 milioni della Gran Bretagna e ai 184,5 della Francia, si comprende come il differenziale sia enorme, in grado di fare appunto la differenza tra un sistema che «funziona» ed uno in crisi permanente,
 

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crisi, sia chiaro, in tutte le componenti della filiera.
      Se si considera poi come si orienta la domanda del pubblico è agevole individuare ulteriori elementi di debolezza della nostra industria cinematografica. Gli indici di concentrazione del box office, ovvero quanto rappresentano rispetto al globale degli incassi i primi 5, 20, e 100 film, ci dicono che il consumo è fortemente concentrato su pochi titoli: i primi 20 titoli si suddividono il 50 per cento degli incassi al botteghino, i primi 100 il 90 per cento. Focalizzando l'analisi sulle produzioni nazionali si registra un dato oltremodo emblematico della mancanza di prodotti medi: i primi 5 titoli assorbono il 64 per cento della spesa del pubblico, i primi 25 la quasi totalità della spesa globale. Considerata la produzione media annuale italiana degli ultimi anni (100 film) è agevole inferire come i tre quarti dei film nazionali soffrano di assenza di pubblico, di impossibilità di generare un processo virtuoso tra risorse allocate e redditività.
      La debolezza della nostra industria traspare poi se si considera il dato relativo alle quote di mercato detenute in Italia dal cinema nazionale rispetto a quello statunitense ed europeo, sia per quota degli incassi, sia per quantità dell'offerta complessiva. Nel 2002 i film nazionali rappresentavano il 22,1 per cento degli incassi e il 27 per cento dell'offerta filmica globale. In termini di incassi i film americani rappresentano il 60 per cento e il 38 per cento in termini di offerta. Il cinema europeo poi pesa un 12,7 per cento per incassi ed un 25,4 per cento per offerta di prodotto. Senza indulgere sulla «colonizzazione», va solo detto come l'offerta nazionale sia in eccesso rispetto alla domanda, al contrario di quella del cinema americano, ulteriore elemento di debolezza della nostra industria che si contraddistingue per sovraccarico di offerta rispetto ai risultati del box office.
      Quanto sopra fa ben ritenere come il caso francese, dove la produzione nazionale, all'ombra dell'«eccezione culturale», presidia il 35 per cento degli incassi ed il 40 per cento dell'offerta di film, sia per il nostro Paese un esempio da guardare e valutare con grande attenzione, al fine di trarne lo spunto per la ristrutturazione di un sistema ormai al collasso, afflitto anche dalla frattura culturale, legislativa ed economico-finanziaria che immotivatamente divide ancora il cinema dalla televisione.
      Il primo «punto di contatto» tra cinema e televisione è dovuto alla politica, con la cosiddetta «legge Veltroni» (n. 122 del 1998). Fu questa legge infatti a ridisegnare una nuova grande alleanza. L'aver imposto, a partire dal 2000, quote sulla produzione e sull'acquisto di opere cinematografiche e audiovisive italiane ed europee alle tv nazionali, in ossequio alle direttive comunitarie, ha rappresentato un grande fattore di propulsione strategica per l'intero settore e ha portato tanto Rai che Mediaset a ripensare le loro politiche nei riguardi del settore cinematografico. La nascita di Rai Cinema e la trasformazione della mission di Medusa ne sono conseguenza diretta. Resta da interrogarsi su un punto: il sistema televisivo avrebbe dovuto creare nuove condizioni di gioco, essere vettore per il reperimento di risorse, lasciando spazio ai produttori indipendenti, oppure come invece è avvenuto, doveva divenire il grande player del cinema italiano, condizionando pesantemente processi creativi e produzione? Se un tempo in Italia non si facevano film senza lo Stato, oggi non si fa nulla senza coproduzione e prevendita dei diritti a Rai o Mediaset. Si aggiunga che, poiché la legge n. 122 evoca obblighi di reinvestimento solo a fronte di canone e pubblicità, Sky, con gli abbonamenti, è esclusa da impegni diretti verso il settore cinematografico; dispiace ricordare che per soli 8 voti, una distratta aula di Montecitorio non fece passare un nostro emendamento che estendeva alle pay tv gli obblighi di riallocazione di parte delle loro entrate a favore delle produzioni italiane ed europee.
      A questo punto si può scegliere tra «sopravvivere», alternando cicli di sconforto a euforia transitoria, o optare per un drastico intervento che possa apportare nuova linfa all'intero settore, senza relegare la televisione a mero finanziatore del
 

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cinema, ma creando un unico sistema integrato dove risorse e valori aggiunti osmoticamente si moltiplicano virtuosamente.
      E qui torna in scena la Politica, quella con la «P» maiuscola.
      La presente proposta legislativa individua alcuni precisi punti di discontinuità.
      Vediamone i principali.
      È chiuso il ciclo della «Musa assistita», per cui il primo obiettivo è quello di configurare il settore cinematografico ed audiovisivo, finalmente uniti in un unicum culturale ed imprenditoriale, in termini di sistema di imprese consolidate patrimonialmente e in grado di operare in condizioni di autonomia finanziaria.
      Il vecchio FUS rimarrà, ma verrà riorientato sulle opere prime, sul sostegno alla creatività, ai nuovi autori e registi, uno spazio per la sperimentazione, fucina dell'innovazione.
      Ma il vero punto di snodo sarà rappresentato, sul modello francese, dall'introduzione di una «tassazione di scopo» su tutta la filiera, dagli incassi all'home video, dalle tv agli operatori di rete e di telefonia, con ritorno sulla produzione italiana. Si potrebbe in questo modo, con risorse prodotte dal sistema stesso, quasi triplicare le risorse per il settore: si tratta di estendere la logica della legge Veltroni a tutti i segmenti della filiera e di renderla - finalmente - portatrice di cogenti obblighi di legge non eludibili.
      Certo la fase di transizione andrà ben regolata, ma solo così facendo, assumendo la centralità del produttore, si possono riequilibrare le asimmetrie dell'attuale mercato dove le dinamiche «oligopolistiche» del sistema tv e i processi di concentrazione nella fase della distribuzione costituiscono un fattore di vincolo al dispiegarsi di un modello «plurale» e «poliarchico»: un vero mercato dove i nostri produttori, dimettendo l'abito di «produttori esecutivi», si possano configurare sempre più come interlocutori forti e soggetti autonomi del sistema, ma per farlo, devono poter sviluppare una propria identità editoriale ed una propria library.
      Va sostenuto ed aiutato l'adeguamento digitale della filiera cinematografica, con interventi sulla produzione, post-produzione e fruizione del film. Tenuto conto della desertificazione che contraddistingue aree del paese, va sostenuto l'ampliamento del numero delle sale, così come vanno sostenute le sale che programmano prevalentemente prodotto italiano/europeo di qualità e che operano nei centri storici. Il mercato distributivo, a monte, va regolamentato così come vanno rivisti i rapporti tra sistema distributivo ed esercizi.
      Rimettere mano con decisione al settore, farlo uscire dal galleggiamento, è probabilmente l'ultima opportunità che ci è offerta per dare un futuro al cinema ed all'audiovisivo italiano e per valorizzare compiutamente quel gran numero di autori, sceneggiatori, attori e maestranze che costituisce un grande, inesplorato patrimonio culturale del nostro Paese.
 

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